In una fascia cangiante che va da Casablanca a Ryiadh si muovono milioni di arabi invisibili, schiacciati dal peso di uno stereotipo ormai imperante in Occidente, per il quale tutti coloro che hanno un passaporto mediorientale o nordafricano sono potenziali terroristi, kamikaze, seguaci di Osama bin Laden.
Il catalogo odierno degli arabi invisibili, invece, è lungo, variegato, sorprendente.
Ne fanno parte ragazzi che usano Internet, professionisti educati nelle nostre università, cineasti e fior di scrittori.
Se … la lista degli arabi che non conosciamo fosse solo questa, però, saremmo al semplice elenco di quelli bravi, buoni e simpatici.
Bisogna, invece, superare il muro, e osservare quella lunga teoria di uomini e donne a cui l’Occidente non riconosce volto e fattezze: quelli che si fanno in quattro per mandare i figli a scuola, che inondano la regione delle rimesse del loro lavoro, che fanno cultura tra le maglie della censura e opposizione tra le costrizioni dei regimi.
L’homo arabicus del Terzo Millennio compare, così, in tutta la sua complessità.
I seguaci dell’islam politico – ormai la maggioranza degli elettori – chiedono democrazia e diritti civili, appoggiati dai settori laici e liberali.
Le femministe più preparate indossano il velo, mentre la cultura pop dei videoclip e dei film incide sui cambiamenti sociali.
I nuovi imprenditori non sono più gli sceicchi del petrolio, ma governano telefonini e tv.
Finita, dunque, l’era delle odalische, dei beduini, quello che si apre a un occhio attento è un mondo ricco, alla ricerca di un nuovo rinascimento considerato imperativo.
Che rifiuta con stizza lezioni di democrazia e civiltà dall’Occidente.
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